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Attualità | 27 settembre 2021, 17:08

Dacia Maraini e gli allevamenti intensivi: la replica a Piero Rostagno

Una famiglia torrese analizza il fenomeno dell’antibiotico-resistenza

Dacia Maraini e gli allevamenti intensivi: la replica a Piero Rostagno

Riceviamo e pubblichiamo la lettera pervenuta in redazione, da parte di una famiglia di Torre Pellice, in risposta a quella di Piero Rostagno sulla posizione della scrittrice Dacia Maraini sugli allevamenti intensivi, espressa durante ‘Una Torre di libri’

 

A seguito della lettera inviata dal Sig. Piero Rostagno, nella quale si esprimevano critiche in merito al passaggio dell’intervento della Sig.ra Dacia Maraini, durante la cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria, nel quale si faceva riferimento alle condizioni in cui sono tenuti gli animali negli allevamenti intensivi e all’eccessivo uso di antibiotici nella prassi dei medesimi, riteniamo siano opportune alcune precisazioni. Premettiamo che siamo convinti che la Sig.ra Maraini non abbia bisogno di lezioni di recupero, né di difese d’ufficio non richieste: la sua biografia e i contenuti del suo intervento parlano da sé e sono perfettamente in linea con una lunga, seppur minoritaria, tradizione di sensibilità nei confronti della violenza che la comunità degli umani esercita sugli altri esseri viventi.

La lista degli intellettuali che si pongono il problema della crudeltà umana verso gli altri animali, esseri senzienti come noi, è in effetti lunga. Per elencarne solo alcuni: il poeta Lucrezio dimostra empatia per una mucca alla quale era stato sottratto il vitello; Leonardo da Vinci sosteneva che un corpo nutrito di carne è paragonabile a un cimitero; il filosofo Jeremy Bentham sottolineava la somiglianza di tutti gli esseri in grado di provare dolore; infine, Immanuel Kant riteneva che la crudeltà verso gli animali si rispecchi nella crudeltà verso altri esseri umani. Dacia Maraini non fa altro che aggiungere un’altra voce, peraltro prestigiosa, a questo nobile coro che ci invita a riflettere sul nostro rapporto con gli altri esseri viventi.

Si potrebbero fare molte considerazioni più che giustificate sulla liceità, da un punto di vista etico, di trattare come oggetti esseri in grado di provare dolore, nonché sull’impatto anche ambientale degli allevamenti intensivi. Ma non è su questi temi che concentra la sua attenzione il Sig. Rostagno, sebbene la riduzione dell’orizzonte dal quale si osserva la questione è già di per sé assai discutibile. Infatti, invitare una persona la quale ritiene che gli animali non possano essere visti come una risorsa da sfruttare, a giustificare gli allevamenti intensivi – già indifendibili per altre ragioni – fornendo dati su un problema specifico, come l’uso improprio di antibiotici, ricorda per certi versi il tentativo di convincere una persona della bontà della pena di morte, a patto che questa venga inflitta “umanamente” e senza torturare i condannati. Se è pressoché impossibile pensare a come la pena di morte possa essere comminata senza tortura, è anche molto difficile immaginarsi allevamenti (sufficientemente redditizi) senza qualche forma di sofferenza. Il privilegio di una scrittrice è di fare la generalista in un mondo di specialisti, i quali rischiano di non vedere al di là dei propri numeri (e interessi), facendoci alzare lo sguardo verso un orizzonte più ampio. Purtroppo, da quella prospettiva il mondo non è sempre così bello come vorremmo.

Tuttavia, sono gli stessi dati forniti dal Sig. Rostagno a essere poco convincenti. A prescindere dalla sua esperienza specifica, può essere utile cercare di ricostruire la questione nel suo complesso. Alla fine di ogni anno solare l’organizzazione mondiale della sanità – meglio nota come WHO (World Health Organization) – individua i dieci pericoli più urgenti per la salute pubblica a livello globale per indirizzare la ricerca medica verso i settori che più ne hanno bisogno. Da anni ormai nell’elenco è sempre presente l’antibiotico-resistenza di microbi, ovvero la situazione in cui batteri, virus, fungi o parassiti evolvono la capacità di sopravvivere a trattamenti antibiotici, aumentando perciò significativamente la mortalità dovuta da comuni malattie infettive come la polmonite o la tubercolosi. L’antibiotico-resistenza ha potuto evolversi a causa di due fattori: 1) il rallentamento nella ricerca scientifica di nuovi ed efficaci antibiotici; e 2) il sovra-utilizzo di antibiotici a nostra disponibilità.

Dopo la scoperta, tra gli anni ’40 e ’60, di tutti i principali tipi di antibiotico, come la penicillina e la vancomicina, che sono ancora comunemente usati oggi, la ricerca scientifica di nuovi tipi di antibiotici ha visto un progressivo rallentamento. Questo è dovuto sia alla percezione del problema posto da malattie infettive fosse ormai risolto, sia alle decisioni da parte di industrie farmaceutiche di concentrare i propri sforzi nella produzione di medicinali comuni e quindi più remunerativi, anziché individuare antibiotici “d’urgenza” da usare quando l’utilizzo di antibiotici comuni fallisce. Questo abbassamento della guardia rispetto al pericolo posto dalle malattie infettive rischia però di costare assai caro, con più di 10 milioni di persone che moriranno entro il 2050 a causa di microbi antibiotico-resistenti e la perdita di 100 trilioni di euro a causa dell’aumento delle ospedalizzazioni (Founou, Founou, and Essack, 2016).

I microbi hanno avuto la possibilità di evolvere antibiotico-resistenza nel corso degli ultimi cinquant’anni a causa del diffuso utilizzo di antibiotici in allevamenti animali di massa. Quando trattati con antibiotici, normalmente i microbi muoiono; tuttavia, in rari casi mutazioni genetiche consentono loro di sopravvivere. Questi “superbugs” – ovvero “super-batteri” come vengono comunemente chiamati – vengono quindi selezionati tramite il processo evolutivo nonché l’utilizzo di antibiotici, e possono diffondere i geni responsabili per l’antibiotico-resistenza ad altri microbi tramite, ad esempio, trasferimento genico orizzontale – un processo in cui geni vengono direttamente trasferiti da un individuo adulto ad un altro. Maggiore è l’utilizzo di antibiotici, maggiore è quindi la probabilità di una mutazione genetica che consenta ai microbi di sopravvivere.

Gli Stati Uniti vengono spesso citati come i principali colpevoli per l’aumento dell’antibiotico-resistenza dato che l’80% degli antibiotici venduti viene somministrato ad animali da macello (Martin, Thottathil, and Newman, 2015) ) e l’Europa nel 2006 ha bandito l’utilizzo di antibiotici per far aumentare di peso gli animali d’allevamento (European Commision, Ban on antibiotics as growth promoters in animal feed enters into effect, 2005). Nonostante ciò, in Italia gli antibiotici vengono ancora utilizzati di routine in allevamenti animali per prevenire e trattare malattie. Secondo Legambiente, il 71% di antibiotici venduti in Italia viene somministrato ad animali da macello, piazzando quindi l’Italia al terzo posto nell’Unione Europea per utilizzo di antibiotici in allevamenti animali (La Repubblica, Legambiente: Il 71% degli antibiotici in Italia va agli animali da macello, 2016). Frequentemente, sul territorio nazionale, l’elevato uso di antibiotici risulta in reservoir di resistenze all’interno degli allevamenti animali in cui vengono utilizzati. Ad esempio, veterinari dell’Università di Bologna hanno osservato una maggiore presenza di Escherichia coli resistenti in allevamenti di broiler (polli da carne) italiani rispetto a broiler danesi che vengono trattati con minor quantità di antibiotici (Bortolaia, Trevisani, Guardabassi et al., 2009). Simili osservazioni di aumentata resistenza ad antibiotici sono state fatte dalla Società Italiana di Patologia ed Allevamento dei Suini (XLV Meeting Annuale) e dalla Società Italiana di Patologia e Allevamento degli Ovini e dei Caprini (De Lucia et al., XXII Congresso Nazionale SIPAOC) che ha concluso che “l’esistenza di un reservoir di resistenze, nei recinti di questi animali, [...] potrebbe potenzialmente persistere e diffondersi anche a seguito di una riduzione di utilizzo di tali molecole”.

Per reagire a tale preoccupante situazione, 65 istituzioni attive nella sanità pubblica hanno creato un’alleanza internazionale contro l’abuso di antibiotici nell’allevamento, il quale consuma il 66% degli antibiotici sulla scala globale (https://www.saveourantibiotics.org/the-issue/antibiotic-overuse-in-livestock-farming/). Infatti, ci sono molti motivi per essere vegani o perlomeno ridurre il consumo di prodotti di origine animale al minimo: morale (perché causare sofferenza gratuita?); ambientale (il 10% dei gas serra sono dovuti all’allevamento animali); uno stile di vita più sano; e a tutti questi si aggiunge il desiderio di prevenire un’altra pandemia.

Un’ultima osservazione: criticare la pratica degli allevamenti intensivi non significa predicare a favore di un ritorno alle pratiche estensive. A parte le riserve etiche suindicate, solo molto parzialmente attenuate dall’adozione di pratiche di allevamento meno “industrializzate”, resta da rilevare che l’allevamento estensivo implica un consumo del territorio ancora maggiore, impedendo o comunque rendendo molto difficile lasciare alla natura selvaggia quello spazio che le è necessario per rigenerarsi e per continuare a donare a noi le sue insostituibili risorse e la sua bellezza.

Ariane Dellavalle, Eva Birkenstock e Sergio Dellavalle

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