“Continuano a chiamare per sapere se siamo aperti... questa è la bombola d’ossigeno a cui ci attacchiamo per immaginare che quando riapriremo le persone arriveranno” Massimo Manavella, gestore del Selleries in Val Chisone, a 2.023 m s.l.m., spiega così il vissuto dei rifugisti in questi giorni in cui le loro strutture sono rimaste chiuse al pubblico, in quanto assimilate a ristoranti e alberghi per quanto riguarda le disposizioni contro il contagio. Il 7 e l’8 gennaio avrebbe potuto riaprire le porte della sua struttura agli escursionisti invernali, ma ha deciso di non farlo perché a causa delle recenti nevicate il rischio valanghe è alto. Così mette in guardia chiunque telefoni: “C’è tanta neve: qui è rischioso. Ma fate attenzione ovunque pensiate di andare”.
Roby Boulard, gestore del rifugio Willy Jervis a 1.732 m s.l.m., in Val Pellice, ha fatto la stessa scelta: “Il rischio valanghe è molto alto: io e i miei figli siamo appena rimasti bloccati 7 giorni in rifugio”. La struttura tiene quindi le porte chiuse anche se la famiglia continua a presidiarla: “È una scelta etica: nessuno ci obbliga infatti a rimanere – spiega Boulard –. Tuttavia noi vogliamo continuare a presidiare il territorio anche se solo come punto di chiamata per i soccorsi”.
La combinazione del rischio di contagio con quello delle valanghe rende pesante l’incognita sui prossimi giorni: “Possiamo ripartire lunedì – auspica Manavella – ma con la prospettiva di chiudere nel fine settimana. Per questo motivo i rifugi soliti lavorare esclusivamente nel weekend dovranno ripensare la loro organizzazione”. Al Jervis si punta invece al 16 gennaio, quando è in programma il loro primo stage di arrampicata su ghiaccio della stagione: “Ovviamente sarà duro il futuro non potendo contare sul sabato e la domenica ma sono sicuro che quando potremo riaprire, e partire con gli stage sospesi lo scorso anno, la gente arriverà”.
Intanto Giacomo Benedetti, presidente commissione centrale rifugi e opere alpine del Cai, guarda già alla prossima stagione turistica estiva: “In inverno molte strutture sono chiuse ma il vero problema si ripresenterà con l’apertura estiva. Per questo dobbiamo iniziare a preparaci fin da ora”. Questa estate, infatti, il flusso di turismo in montagna è stato notevole ma ciò non ha significato un aumento del fatturato e un’altra stagione analoga metterebbe in ginocchio molti: “La contingentazione dei posti letto e di quelli a tavola non ha permesso di lavorare a pieno regime e l’asporto non ha compensato la perdita di fatturato che crediamo si attesti tra il 40 e il 50% per le strutture che sono state corrette nel seguire la normativa” spiega Benedetti. Le incognite vengono alimentate anche dall’incertezza dei ristori, tema su cui si è espressa recentemente l’Uncem: “I rifugi sembrano esclusi dai ristori stanziati con il cosiddetto decreto Natale per una questione di codici Ateco – sottolinea –, anche se diverse strutture hanno avuto accesso ai ristori precedenti”. Sul tema della carenza di sostegno, Manavella, che è anche consigliere del coordinamento nazionale delle associazioni di rifugisti, invita la sua categoria professionale a una maggiore chiarezza: “Spesso non rientriamo in tali interventi a causa della nostra scarsa visibilità di cui siamo in parte responsabili: siamo una categoria numericamente piccola ma al tempo stesso latitiamo ai tavoli di confronto e, a livello nazionale, non sappiamo con chiarezza nemmeno la consistenza numerica delle nostre attività e dei nostri posti letto”.