A seguito della candidatura da parte dello Stato italiano e della decisione all’unanimità del Comitato intergovernativo dell’UNESCO, riunitosi recentemente a New Delhi, la cucina italiana è stata riconosciuta “patrimonio culturale immateriale”. La ragione di questo riconoscimento è la capacità della cucina italiana di «favorire l’inclusione sociale, promuovendo il benessere e offrendo un canale per l’apprendimento intergenerazionale permanente, rafforzando i legami, incoraggiando la condivisione e favorendo il senso di appartenenza». La cucina italiana viene così avvolta da un’aura che, catalizzando in sé gastronomia e antropologia, la assurge di fatto quasi a simbolo universale del mangiare.

La sacralità della cucina italiana
Così dopo il tormentone della candidatura ora è partito il tormentone del riconoscimento. In questi giorni non c’è evento o conferenza stampa in cui non se ne parli, da destra e da sinistra, come di una medaglia da esibire per dire quanto siamo bravi: perlomeno sul piano del mangiare. E i commenti entusiasti – peraltro del tutto comprensibili – fioccano senza sosta: da quelli politici, a quelli degli chef, a quelli infine degli esperti di settore. "La cucina italiana – ha proclamato il re dei cuochi italiani Massimo Bottura –non è una semplice somma di piatti o ricette. È un insieme di gesti, parole, silenzi e profumi che abitano la memoria collettiva del Paese. È un rito quotidiano che si ripete e si rinnova, che ricompone famiglie, generazioni, territori". Qualcosa di sacro o, perlomeno, di assai prossimo ad esso!

Ma la cucina italiana esiste?
Ovviamente l’entusiasmo per il riconoscimento rischia di non farci vedere le cose come davvero stanno. E a ricordarcelo non è un politico, uno chef, un esperto di settore, bensì uno storico dell’alimentazione la cui tesi, sia pur discutibile, ha perlomeno il pregio di sfuggire all’enfasi che in questi giorni il mondo dei piatti e della padelle vive: «Era ora – ha dichiarato sarcasticamente Alberto Grandi, professore associato di Storia del cibo all’Università di Parma – che qualcuno con un timbro internazionale certificasse ciò che non è mai esistito, cioè un'idea astratta, levigata e volutamente artefatta della nostra cucina e del nostro rapporto con l'alimentazione. Peccato che questa immagine non abbia alcuna relazione con la storia reale dell'alimentazione italiana, con ciò che gli italiani hanno portato in tavola per secoli e che portano in tavola ancora oggi».

Il paradosso di una cucina “immateriale”.
Che esista o non esista, la cucina italiana da gesto quotidiano è stata trasformata in feticcio: esaltata come arte da chef che si sentono dei Michelangiolo Buonarroti, celebrata come icona da comunicatori che ne romanzano ingredienti e protagonisti, irregimentata attraverso ricette registrate assurte a canone indiscutibile dei piatti, la nostra cucina rischia di perdere sé stessa. La riprova? Il suo essere stata iscritta nel patrimonio “immateriale” dell’Unesco. Ciò che c’è di più materiale – già a metà ‘800 il filosofo Ludwig Feuerbach ci ricordava che “l’uomo è ciò che mangia”! – è promosso e tutelato proprio per la sua “immaterialità”. Un vero paradosso che tuttavia potrebbe perlomeno suonare come campanello di allarme e indurci a tornare semplicemente a vivere la cucina per quello che – nel migliore dei casi – è: il piacere di gustare un buon piatto, condividendolo con chi è a tavola con noi e accompagnandolo con un bicchiere di buon vino.





