Il viaggio verso Pemba comincia con una sensazione di sospensione. Al terminal per i voli locali dell’aeroporto, i bagagli non scorrono su rulli elettronici ma vengono pesati su una grande bilancia metallica, con l’ago che oscilla lento come se stesse misurando anche l’attesa. Gli spazi sono spartani, i corridoi affollati di viaggiatori e valigie ammassate. Non ci sono display né altoparlanti: l’imbarco viene annunciato, da un addetto che chiama i passeggeri a voce. Il piccolo aereo che collega Zanzibar a Pemba sembra un autobus con le ali. I sedili sono stretti, le vibrazioni delle eliche si avvertono in ogni centimetro della cabina e non c’è il bagno a bordo. Ma il volo dura appena trenta minuti, e l’adrenalina dell’avventura supera ogni disagio.

Dall’oblò, lo sguardo si perde tra lingue di sabbia che emergono e scompaiono con la marea, tra foreste di mangrovie che si insinuano come radici nell’acqua, e piccoli villaggi sparsi come puntini marroni e verdi. Non è la Zanzibar delle brochure turistiche, ma un’isola selvaggia, che conserva il suo ritmo naturale e chiede al viaggiatore di adattarsi.

Atterrati, una strada sterrata conduce al primo punto d’imbarco. Una barca di legno, coperta da un telo improvvisato, è pronta a partire. A bordo ci sono taniche di carburante e poche sedute essenziali. Il motore ruggisce a tratti, e l’imbarcazione avanza seguendo il ritmo delle onde. La destinazione è Misali Island, una delle gemme di Pemba. Dopo circa un’ora di navigazione, la sagoma verde dell’atollo emerge all’orizzonte, incorniciata da acque trasparenti. E’ un parco marino protetto, un santuario naturale che custodisce una delle barriere coralline più ricche della regione. Arrivarci significa trovarsi davanti a una spiaggia bianca fatta di polvere di conchiglia, a un mare che muta colore ogni pochi metri: dal verde chiaro al blu intenso, dal turchese al cobalto. Qui non ci sono resort né file di ombrelloni, solo silenzio e natura.

Dietro la facciata paradisiaca, Pemba è fatta soprattutto di persone. Nei villaggi, le giornate sono scandite dal lavoro quotidiano e dalle tradizioni di un popolo che ha ben chiare le proprie radici. I bambini corrono scalzi tra le capanne, curiosi verso gli stranieri. Hanno occhi grandi e sorrisi timidi, ma soprattutto hanno sete di attenzione. Un gesto semplice, come portare quaderni, penne e scatole di colori, diventa qui un atto di speranza. Oggetti banali per noi, si trasformano in tesori preziosi per loro: strumenti per imparare, per immaginare, per superare barriere. I sorrisi che esplodono quando ricevono un dono non sono di circostanza: sono puri, spontanei, disarmanti.Le donne indossano “ Kanga ” dai colori vivaci. Sedute all’ombra degli alberi, intrecciano, cucinano, accolgono. L’ospitalità è fatta di piccoli gesti, di mani che si tendono, di sguardi che sanno includere senza bisogno di grandi discorsi. Noi riceviamo il privilegio di entrare, anche solo per un attimo, nella trama di una comunità che vive di legami più che di oggetti, di gesti più che di parole. Ciò che portiamo via non si infila nello zaino: rimane dentro, come un richiamo silenzioso a ridare valore all’essenziale.

Il viaggio continua verso Shamiani Island, conosciuta anche come Kiweni Island. Si raggiunge combinando pulmino e barca, seguendo i ritmi delle maree, e regala la sensazione di arrivare nel giardino dell’Eden. In questo luogo il vuoto è il protagonista. Le spiagge sono deserte, le acque limpide e calme, la foresta scende fino al mare. Sulla riva, un’altalena appesa a un albero oscilla dolcemente di fronte all’oceano. È un simbolo perfetto dell’isola: semplice, autentica, capace di restituire spazio senza aggiungere nulla di superfluo. Qui si trova anche Emerald Beach, una distesa di sabbia chiarissima che scintilla al sole e prende il nome dai riflessi verdi e turchesi del suo mare. È pura scenografia naturale, un tratto di costa che ipnotizza. Qui è stata costruita una struttura ricettiva pensata per inserirsi nell’ambiente circostante, senza intaccarne l’equilibrio. Non è un resort, ma un rifugio eco-sostenibile che dialoga con la natura anziché dominarla.

L’ultima sorpresa di Pemba è Sandbank, una lingua di sabbia che emerge in mezzo all’oceano e scompare con il gioco delle maree. Per raggiungerla, però, non tutto fila liscio. La barca tardava ad arrivare, e noi siamo rimasti bloccati in un campo in compagnia di un pastore e delle sue mucche, con il dubbio che non saremmo potuti partire. Una scena quasi surreale: il mare davanti, gli animali al nostro fianco, e l’incertezza di dover forse tornare a piedi dall’altra parte dell’isola. Il tempo passava, tra risate nervose e chiacchiere per sdrammatizzare, finché finalmente all’orizzonte è comparsa la barca. La traversata si è trasformata così in un piccolo trionfo. Il momento più divertente è stato quando alcuni di noi si sono messi a correre lungo la lingua di sabbia, con l’acqua che lambiva i piedi e l’orizzonte aperto tutt’intorno. Sandbank non era più solo uno spettacolo naturale, ma un frammento di gioia pura, concesso dalla marea.

Per chi cerca un’esperienza autentica, Pemba non è una fuga comoda né una vacanza da catalogo. È un’isola che si offre solo a chi accetta di rallentare, di ascoltare, di osservare con attenzione. Un viaggio qui è l’incontro con un tempo remoto . Alla fine resta la sensazione di aver toccato un luogo che vive ancora sospeso, come le sue lingue di sabbia governate dalla luna.
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